Cinema

Intervista al regista di "The Good Shepherd"

Intervista al regista di "The Good Shepherd"

Chissà se è per non creare imbararazzi alla Cei già molto infastidita per via dei «Dico» che The Good Shepherd, il film diretto da De Niro, in uscita da noi il 20, in 400 copie per la Medusa, non ha avuto il titolo tradotto ne Il buon pastore definizione che si usa per Gesù, ma l’aggiunta del sottotitolo: L’ombra del potere. The Good Shepherd di De Niro è la Cia, il più grande servizio di spionaggio del mondo, una organizzazione fortemente gerarchica e segreta che per anni ha affascinato l’attore il quale, dopo essersi documentato in lungo e in largo, avrebbe voluto raccontarla negli anni della Guerra fredda: dalla creazione alla caduta del Muro di Berlino. Invece, quando gli è capitato tra le mani il copione di Eric Roth, quello di Forrest Gump e di The Insider, ha fatto un patto: lui avrebbe girato la storia della Cia dalla sua creazione durante la guerra mondiale al fallimento della Baia di Porci, e Roth in cambio avrebbe scritto il secondo capitolo, quello che interessa De Niro, in vista di un futuro terzo film sulle vicende della Cia di oggi, dall’11 settembre in avanti. Capelli ormai grigi, più barba e baffi indispensabili al ruolo di un produttore hollywoodiano che sta interpretando, De Niro è arrivato a Roma per poche ore con la moglie e il figlio di nove anni. Un momento di riposo, un caffè, tante interviste, una cena con spaghetti all’arrabbiata, mozzarella, carciofi e via di nuovo a Los Angeles. «E’ vero, detesto le conferenze stampa perché un attore non sa mai cosa dire. Ma se di quel film sei il regista è diverso: puoi fornire spiegazioni, motivare scelte», dice serissimo. Solo la Iena Lucci che in un crescendo rossiniano gli elenca tutti i misteri italiani da Piazza Fontana a Vallettopoli invitandolo a raccontarli al cinema gli strappa un sorriso divertito: «Avete molto materiale voi in Italia». E’ il suo secondo film da regista dopo Bronx Tale, ma se quello era l’autobiografia di Chazz Palminteri, questo è un ambiziosissimo affresco sulla Cia vista con gli occhi e il cuore di uno dei suoi fondatori, l’attore Matt Damon. Cast di lusso. Tra gli altri Angelina Jolie, Alec Baldwin, William Hurt, John Turturro, Joe Pesci, Martina Geddeck e lo stesso De Niro nel ruolo del generale Sullivan. Come sempre, anche adesso che ne è l’autore, De Niro non si sbilancia e molti «Non so» punteggiano molte sue risposte. Che idea s’è fatto della Cia? «Lo spionaggio è utile alla difesa di un paese. La Cia, da noi, in questo momento, non gode di buona fama. Le vengono rinfacciati molti errori, a cominciare da quello sulle armi di distruzioni di massa che avrebbe posseduto Saddam. Ma nessuno sa quanti complotti ha sventato, quante operazioni ha condotto in porto, quanti successi ha ottenuto». Nel caso dell’Iraq che errori ha fatto la Cia? «Non so. Più che di errori parlerei di circostaze sciagurate. Dicono che gli allarmi c’erano e non li hanno saputi leggere». Ha mai avuto l’impressione di essere spiato? «Negli Stati Uniti mai. La prima volta che sono andato in Russia, invece, ne ho avuto la certezza. Era normale». In Italia, partendo dal caso del giornalista sequestrato dai talebani, si discute su cosa vada reso pubblico e cosa no in una trattativa condotta dai servizi: lei che ne pensa? «La linea è sottile. Un paese democratico deve controllare i suoi servizi. Ma se i servizi tacciono nell’interesse nazionale vanno compresi. Il vero problema è sapere se dicono il vero quando si trincerano dietro l’interesse nazionale». Una volta lei ha paragonato la Cia alla mafia, perché? «Hanno una struttura simile, molto segreta». Che cosa l’affascina della Cia? «Non lo spionaggio in sé. Da Bond in giù i film sulle spie sono tanti. Mi incuriosiva raccontare lo spionaggio dall’interno, svelarne i meccanismi». Nel film parecchi agenti della Cia vengono da quell’associazione fondata a Yale che si chiama «Skull and Bones»: è una cosa vera? «In teoria i suoi membri non dovrebbero rivelare di esserlo. Questo, però, valeva in passato. Oggi lo dicono. Si sa che ne hanno fatto parte i due presidenti Bush, padre e figlio. La P2? Non ne so abbastanza, ma con gli “Skull and Bones” penso ci siano affinità nella corsa al potere e in una certa insalubrità per la democrazia». Per un attore bravo come lei è più facile o più difficile dirigere i colleghi? «Più facile: li capisco. Così come capisco la necessità di avere quel particolare attore per quel determinato ruolo. Turturro aveva perso sua madre quando abbiamo cominciato a girare: l’ho aspettato, ma non ho rinunciato a lui». Si avverte un’aria alla Sergio Leone in questo suo film. «Sia io che Leone abbiamo aspettato molti anni per realizzare il nostro sogno. Sarà per questo che il mio film potrebbe chiamarsi: C’era una volta la Cia. Ma è accaduto senza volerlo».